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Gay & Bisex

Sirio parte due


di Superperv
27.02.2024    |    3.930    |    4 9.5
"Si faceva chiamare Tiffany, in onore della sua diva prediletta, ma alle spalle le altre la chiamavano “a anaconda”, per via della sua dotazione..."
Dopo la prima marchetta con Leonardo, sono rientrato a casa su un taxi, non ne avevo mai preso uno, era una sorta di lusso inimmaginabile nella situazione in cui vivevamo mia mamma, il suo compagno ed io.
Tornare nell’appartamentino da caseggiato popolare di periferia dopo le ore passate in una villa da sogno mi fece di colpo sentire il peso della diseguaglianza sociale, era una cosa sulla quale non avevo mai riflettuto, alla fine ero un ragazzino malcresciuto, senza stimoli e col cervello rimasto per 15 anni in una sorta di letargo esistenziale in cui a far da padrona era stata la sopravvivenza, giorno per giorno, non la ragione per cui ci si trovava a fare i conti amari con la credenza vuota.
Era come se tutto in quel momento congiurasse per farmi pensare che le colpe di mamma, posto che le sue fossero colpe, stavano ricadendo su di me, e che la ragione del mio disastro stava fuori di me.
Salii le scale pieno di tristezza e con un certo disgusto contro me stesso per aver venduto il culo ad uno sconosciuto e con rabbia contro mia madre per la sua tossicodipendenza, come se fosse lei, o Mario il suo uomo, la ragione del mio fumare eroina.
Quando aprii la porta la vidi, ed era spaventata, preoccupata, con gli occhi stanchi, e il tremito di quando le manca la roba, capii che non si era fatta per aspettarmi, per essere lucida, qualora mi fosse successo qualcosa.
Mi abbracciò, non mi fece domande, forse aveva capito tutto dal modo in cui camminavo.
Povera donna aveva anche chiamato la polizia, lei che gli sbirri li temeva come la vite teme la peronospora, lei per me aveva vinto quella paura che attanaglia ogni tossicomane.
In quel momento, a 15 anni da poco compiuti, compresi che dare a qualcuno la responsabilità per quel che noi scegliamo di fare è il miglior modo per non smettere mai di ripetere lo stesso errore, e fu un’illuminazione dolorosa. Abbracciai mia madre e le dissi un semplice.” Tutto bene, mamma, tutto bene”, forse avevo bisogno io di sentire la mia voce che lo diceva..
Mi feci una nuova doccia, questa volta nel mio bagno, un poco freddo e con le piastrelle rosa shocking rimaste identiche dal 1960, immagino.
Mi sentii meglio, meno sbagliato, e mi resi conto asciugandomi che mica era colpa di mamma quello che era, o meglio, era sua responsabilità, ma non una colpa, era malata, ed anche io stesso, visto quel che consumavo, evidentemente lo ero, qualcosa dentro di me si era rotto, e non era lo sfintere appena aperto, era qualcosa accaduto prima, e cercavo di autocurarmi con le sostanze. Questo di certo non mi rendeva meno responsabile della mia scelta, ma intuivo che fra responsabilità e colpa c’è il sottile limite delle circostanze che determinano le decisioni individuali, o la loro conferma inevitabile.
Nudo, davanti allo specchio mi guardai con un’oggettività che non avevo mai avuto: ero bello, davvero tanto bello ed ero molto giovane, potevo avere il mondo, ma solo in teoria. Da quel caseggiato popolare, da una vita senza manco la terza media non potevo spiccare il volo, le mie ali erano troppo piccole per sostenermi, o forse, nel caso di chi parte svantaggiato, l’ambizione è come il sole, e come il sole scioglie le ali dei provetti Icaro che si illudono di potersi allontanare da certe miserie. .
Mi sistemai i capelli, e poi mi rasai il pube, come facevano le prostitute brasiliane che di notte rincasavano ubriache e canterine in un alberghetto cimicioso del quartiere, un posto che non chiedeva i documenti. Le avevo conosciute tutte al bar del malandato parchetto rionale.
Fin da ragazzetto di 10 o 11 anni avevo parlato con loro che mi chiamavano “O Principezinho”, il piccolo principe, per loro forse ero una sorta di ricordo di qualche figlio, o fratellino piccolo, lasciato indietro a Recife o Bahia, e ora, rasandomi quella traccia di mascolinità, dentro di me, avevo deciso di diventare un loro fratello, con quell’atto simbolico, diventavo adulto come loro e, come loro accettavo di far diventare il mio corpo un oggetto di consumo..
Mi fumai una stagnola fatta racimolando qualche rimasuglio che avevo recuperato raschiando il fondo del barile, e mi misi a dormire, come se tutti quei pensieri non mi dovessero appartenere, erano riflessioni riservate a chi vive nelle ville, come Leonardo, o i suoi nipoti, se li aveva, io ero Sirio, il tossico che fa marchette, punto e basta..
Il giorno dopo diedi a mamma metà dei soldi guadagnati con Leonardo, per fare la spesa, anche se già sapevo che per tre quarti li avrebbe usati per comprarsi altro. Lei non mi fece domande su come li avessi guadagnati, li prese e basta.
Uscii di casa, sorrisi e mi gettai nella vita che in quel momento della mia esistenza avevo considerato come l’unica possibile.
Ormai non mi vergognavo, avevo fatto quel rito di passaggio, e così feci qualche domanda in più e scoprii che in centro c’era un cinema porno dove si smarchettava alquanto, ma di pomeriggio, o prima serata, quando mariti e pensionati sono in libera uscita. Già, perché all’ultima coda degli anni novanta ancora resistevano quei posti, come baluardi archeologici di un mondo passato.
Siccome i soldi di Leonardo erano finiti in due o tre giorni, decisi che era il caso di provare, tanto mi avevano già detto che la cassiera miope ed assorta nella lettura di riviste di basso interesse non verificava la maggiore età di nessuno, purché avesse ultimato la pubertà, ben inteso.
Arrivato alla sala la cassiera mi squadrò un attimo per decidere, e poi decise che ero grande abbastanza e mi lasciò passare.
Compresi da subito che nessuno guardava il film etero con immagini sfocate e trama insulsa. La sala però era alquanto piena, probabilmente essendo estate molte consorti erano già in vacanza, o nelle seconde case al lago, e quindi i mariti erano in libera uscita.
Mi piazzai in galleria e notai subito un via vai fra la scalinata e lo spazio vuoto oltre l’ultima fila di poltrone.
O erano tutti presbiti e con necessità di guardare da lontano, oppure era lì che ci si incrociava e squadrava.
Ci vollero pochi minuti, e già una serie di soggetti mi si era avvicinata, o mi aveva sfiorato casualmente.
Mi appoggiai alla parete, fingendo di guardare la pellicola, e subito ai lati mi trovai due tipi che a piccoli spostamenti venivano sempre più vicini. Guardando capii che spostarsi voleva dire rifiuto, restare era luce verde.
Restai fermo, uno dei due non era per nulla male, mi mise una mano sul culo, e mi fece cenno. Io lo seguii, anche quando si diresse verso i bagni.
Non dovetti neanche mettere in chiaro, mi chiese offrì lui il prezzo standard per un pompino, e così finimmo nel bagno, fortunatamente pulito, o quasi.
Lui era sui 35, ben vestito, fede al dito, biondo, slavato ma piacente, aria da impiegato di banca. Si tirò giù la zip e io mi piegai per fare il mio dovere.
Dopo aver provato Leonardo quel cazzo un filo sotto la media mi parve un poco assurdo, come assurda era la situazione, ma i suoi modi di fare, i soldi infilati nel taschino dei pantaloncini, la sua mano in testa quella posata sul culo, mi fecero eccitare, e succhiai con attenta passione.
Forse ci misi troppa passione, perché il bravo maritino venne nel giro di 10 minuti. Si ripulì con un kleenex mentre io mi sciacquavo la bocca.
Avrei potuto uscire subito, anzi sarebbe stata un’ottima idea, ma come detto le scelte sbagliate si auto confermano, e portano ad altri errori.
Feci un altro paio di pompini, sempre nel bagno, uno ad un muratore sui 50, ben tenuto col cazzo grosso e storto che mi chiavò fino alle tonsille, e l’altro ad un signore ben più vecchio, che un attimo era eccitato e quello dopo floscio, mi disse che si sentiva in colpa, il che non gli impedii di insistere fino ad una sana e riconciliante sborrata che tacitò la sua coscienza.
Fiero del mio essere ormai un vero prostituto, uscii a fumare, e lì mi accorsi che davanti sala c’era anche Ahmed. Sperai che non mi avesse visto. Lui era un tunisino, cugino, o così loro dicevano, di Samir, uno spacciatore da cui compravo.
Coi soldi di tre marchette in tasca mi misi in giro a cercare proprio il “cugino” e i dopo poco incontrai di nuovo Ahmed gli chiesi di suo “cugino” e lui mi dice e che Samir era a casa di un amico, di aspettare, che telefonava per vedere se potevo andare, oppure no.
Dopo un tempo che, stante il mio bisogno di roba, mi parve molto lungo, Ahmed si ripresento, mi disse “ tutto ok! Seguimi”.
E io, a quel punto, da bravo tossico voglioso di avere sostanze, misi il cervello in pausa e lo seguii, cosa insensata, visto che non mi avevano mai ammesso ai loro covi nel quartiere degradato del centro storico.
Arrivati alla casa Ahmed fece un fischio da capraio e da sopra gli aprirono la porta, salimmo le scale, tutto normale, ero pure eccitato all’idea di essere considerato grande abbastanza per entrargli in casa.
Aperta la porta c’erano Samir, che come Ahmed era sui 30-35, età indefinita, alti e abbastanza muscolosi, credo che oltre allo spaccio facessero qualche ora da muratori, giusto per il permesso di soggiorno, poi tre che conoscevo di vista perché spesso erano con Samir, anche loro nordafricani, e c’è anche Nadir, detto “Maschera” un 45enne col viso sfregiato da un brutto taglio, un vero boss fra i tunisini che spacciavano, era lui che aveva i ganci per comprarne partite, lui non vendeva al dettaglio, non andava in strada, in compenso era stato 7 anni in galera, la sola volta che lo hanno beccato.
Troppa gente pensai, e poi che ci fa qui Nadir? Prima di darmi una risposta li avevo tutti addosso, e mi ritrovai nudo sul pavimento tenuto fermo da 6 uomini, col braccio torto dietro la schiena, che quasi mi si disarticolava, e un uomo grande due volte me addosso, potevo solo agitarmi senza successo, la mano di un altro sulla bocca mi impediva anche di urlare o insultarli.
A quel punto senti il cazzo di Ahmed che mi entrava dentro, e una voce che con accento arabo e italiano stentato che dice :” stai buono, frocio, che ti apriamo bene il culetto per nostro capo, buono o ti taglio faccia bambino frocio”.
Ahmed fotteva veloce e brutale, come uno che vuol solo svuotarsi i coglioni, mi venne dentro sputandomi sul viso e lasciò il posto a un altro, che mi chiavò allo stesso modo, sentivo male e paura, e non riuscivo proprio a rilassarmi, col che a me faceva più male e loro diventavano soltanto più violenti.
Anche il secondo venne in fretta, io ormai mi limitavo a piangere e squittire, ma la cosa non fermò il terzo, che mi chiavò pure lui di brutto, a quel punto mi arresi, lasciandoli fare in attesa che finissero.
Il terzo continua a dire. “dillo che ti piace, dillo che ti piace cazzo tunisino”, sentii che una mano mi triava i capelli, uno mi rifilò una sberla, a quel punto dissi e ripetei qualsiasi cosa volessero sentirsi dire, certo, che mi piaceva, che ero frocio, che mi meritavo i loro cazzi.
Mi stavano stuprando in ordine di grado, dal meno elevato, fino al capo, quello che dovrà trovare come dicono loro “una fica in suo culo”, quando arriva il turno di Nadir, non serviva neanche più che mi tenessero fermo, ero lì sul pavimento, totalmente inerme, sconfitto.
Nadir mi rigirò a faccia in su, voleva guardarmi negli occhi, si sputò sul cazzo davvero notevole e lo infilò dentro a forza, per poi iniziare a scoparmi da maestro. In quel momento compresi chiaro che voleva oltre al mio culo anche la soddisfazione di dimostrare che lo volevo io, che mi era piaciuto, ma non ripetendo frasi a sberle e con le lacrime di rabbia negli occhi, voleva vedermi godere per umiliarmi di più, farmi sentire un frocetto che viene pure se violentato..
Cercai di negargliela quella soddisfazione, almeno fin che potei, poi, pensai che era tutto nel rapporto fra causa ed effetto, io ero una preda, e loro i lupi, era naturale che fosse così.
Il leone sa dove va a bere la gazzella, ed io ero la gazzella di Nadir, sentivo la sua voce ripetere che era da mesi che voleva il mio culetto, che ora mi avrebbe riempito di sperma, e anche fatto godere come una figa.
In un vetro vedevo il riflesso di lui sopra di me, forse la sua aria da criminale, o la paura che mi facessero altro male, o la sua resistenza nel fottere senza sborrare, e forse anche la speranza che mi dessero della roba finirono col piegare il mio orgoglio, mi rilassai, accettai di nuovo ciò che ero, e la mia prostata prese il sopravvento.
Si prendessero pure questo altro pezzo di decoro, di dignità, già che per la roba avevo fatto di tutto, che differenza c’era?
E così lasciai che il piacere si manifestasse, gemendo, ansimando e poi sborrando sul pavimento sotto di me. Nadir venne alcuni minuti dopo e prima di uscire mi pisciò dentro, per umiliarmi come” zamel,” checca, passivo.
Quando mi alzai ero distrutto, avevo il buco in fiamme e un rivolo di sborra e di urina che usciva dal culo, segni sul viso, qualche livido, e il braccio era indolenzito, Nadir mi tirò tre buste di roba per terra, le raccolsi, mentre loro ridevano e scappai fuori, con i pantaloncini infilati di fretta, senza mutande, lasciate come trofeo, e senza maglietta.
Mi nascosi in un androne di uno stabile vuoto, mi misi lì a piangere e vomitare, odiavo il mio essere tossico, odiavo dove mi stava portando, dove mi aveva già portato, mi ero fatto pure stuprare da chi mi vendeva la roba, mi ero fatto umiliare, ed avevo anche goduto, almeno con Nadir, e a quel punto non ero abbastanza grande da poter reggere tutto quello assieme..
Fu lì che, passando per caso, mi recuperò, la Tiffany attratta dal suono dei singhiozzi mischiato alle mie bestemmie contro un Dio con cui stavo litigando a piena rabbia.
Lei era una trans brasiliana di colore, col fisico di un giocatore di football americano, ma con le tette, ed un trucco approssimativo. si faceva chiamare Tiffany, in onore della sua diva prediletta, ma alle spalle le altre la chiamavano “a anaconda”, per via della sua dotazione.
Tiffany diceva sempre che appena fatti abbastanza soldi si sarebbe fatta smontare le tette e sarebbe torna in Brasile, cosa che in effetti anni dopo lo fece, tornando a casa benestante e con un fidanzato bianco e maturo, che lo preferiva maschio.
Era anche capace di dolcezza, e con me in quel momento lo dimostrò alla grande.
Fermò un’amica, e dopo poco ero in una casa a lavarmi, coccolato da una battona carioca nata donna e da “a anaconda” che prometteva di andarli a cercare e tagliargli anche l’altro lato della ghigna al Nadir.
Stavo troppo male per tornare a casa, e mi tennero lì a cena e poi a dormire, e con strana solidarietà Tiffany-Anaconda, non andò a lavorare e si fermò tutta la notte, a raccontarmi pezzi della sua vita e dell’infanzia a Cuiabá, nel Mato Grosso.
Mi addormentai strafatto di roba fumata con rabbia, perché mentre la fumavo mi odiavo, ma non avevo voglia di smettere, e lo sapevo.
E quella notte sognai Ale, lo sognai nudo, e poi dimenticai il sogno, solo che era nudo.
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